Il logo della Fondazione Mediterraneo

Condividiamo valori
Combattiamo le ineguaglianze
Costruiamo la pace

Il nostro portalevideo
 Inglese Francese Italiano 
*

Home page

*
*
*

Chi siamo

*
*
*

La Rete

*
*
*

Le Sedi

*
*
*

Le Attività Svolte

*
*
*

La Maison de la Méditerranée

*
*
*
Le Attività
*
In programma
Svolte per Anno
   1994 - 2010
Svolte per Aree
   tematiche
Elenco generale
Attività delle Sedi
Pubblicazioni
 
* *
La Capria – Brani scelti

Napoli è famosa per la promiscuità psicologica delle classi sociali, che pur essendo diversissime per censo e modi di vita, come in tutto il resto del mondo, hanno una forma particolarissima di convivenza e reciproca simpatia… per questo, nell’Armonia perduta, arrivo a dire che la lotta di classe non era possibile! Come è possibile la lotta di classe tra persone che, in un certo senso, tendono sempre a simpatizzare? Per il dialetto, le battute, le abitudini… Prendete per esempio due avvocati napoletani – un po’ retorici e ampollosi come solo gli avvocati napoletani sanno essere – che si bevono il caffè col bicchiere d’acqua allo stesso modo, che hanno le stesse idee sull’amore, la gelosia, la vita, la morte, che adorano entrambi… che so… La cieca di Sorrento, oppure Folli, vindici e pirati: le arringhe celebri; bene, uno è comunista, l’altro è di destra. Cosa prevarrà, la differenza ideologica o l’identità antropologica?


Ferito a morte, che spesso viene assimilato al clima “sperimentale” di quel tempo, pur non avendoci nulla a che fare, voleva essere questo: una presa di posizione morale nei confronti della tradizione narrativa meridionale. La quale non è polifonica, ma, al contrario, è sempre sostenuta da una voce, la voce di un narratore che sa tutto, condizionando, così, la rappresentazione. La voce del narratore è una voce condizionata, volente o nolente, da una nozione già nota e “pubblica”.
In certi casi, a Napoli, la rappresentazione, la teatralizzazione della vita quotidiana, la recita è più forte della realtà. Più che essere, i napoletani si dimostrano, e questo è un segno delle grandi civiltà, che hanno sempre indossato una maschera. La maschera come uno scudo, un rimedio opposto alle avversità… Nei Dieci comandamenti di Martone si sentiva perfettamente che questo diaframma, questa distanza che la maschera permette dal “ventre molle” di se stessi, non solo esiste, ma è anche forza vitale.


Mio padre era un commerciante abbastanza abbiente, prima della Grande Crisi del 1929. Quell’anno iniziarono le sfortune della famiglia, perché i suoi affari consistevano nell’importazione di grandi convogli di grano dall’America. In seguito, dovette ridimensionarsi, “arrangiarsi” per così dire. Divenne un impiegato dello Stato, un direttore del Consorzio Agrario. Mia madre (ne parlo in La neve del Vesuvio) aveva velleità più chic, ma anche lei proveniva dalla piccola borghesia calabrese, focolaio di aspirazioni dannunziane, e poi di astrazioni pirandelliane… In famiglia si conservava la memoria di mia nonna che, affacciata al balcone, decideva il prossimo pezzo di terra da vendere, o meglio svendere, per comprarsi, magari, cento paia di scarpette nuove. A quei tempi, la circolazione delle idee avveniva in maniera strana: a casa mia, ad esempio, non c’era nemmeno un libro. La prima biblioteca l’ho formata io, con i libri della UTET. Iniziai a leggere Edgar Allan Poe perché mi incuriosiva il nome! A dire la verità, tutto era molto casuale, e la lettura dei libri, di per sé, non era un fatto che arrecava automaticamente prestigio. “Guagliò, tu hai letto troppi libri!” mi diceva mio nonno, seriamente preoccupato per me. Fa parte della struttura intrinseca del mio modo di pensare il fatto che la mia cultura sia nata così, per caso e da dilettante. Il mio sapere non è mai stato organizzato, perché, quando io ero giovane, non erano facilmente disponibili né guide né autentici “programmi di studio”. Io mi sono, tra l’altro, iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza, non a quella di Lettere.


La bellezza si traveste in mille modi, è come Proteo. Non ha possibilità di definizione. Tu stai per strada, passa una … e ti piace. Ma si tratta di frammenti, non lasciano indovinare il tutto della bellezza. Anche quell’idea che c’è in certe avanguardie di andare “contro la bellezza”, è un equivoco, un pensiero che si deve per forza servire di qualche canone classico di bellezza per combatterlo… Ma se tu la pensi, la bellezza, dentro tutti i canoni possibili e immaginabili, e anche al di fuori di quelli, non solo nell’armonia, ma anche nella disarmonia, nella bruttezza apparente, ecco che allora tu accedi a un’esperienza inesauribile. Come quando dico che mi piacciono i quadri di Bacon: mi piacciono, perché tra quei mostri circola un modo di fare la pittura, qualcosa che è pur sempre bellezza.
L’altro giorno stavo guardando la tv, non mi ricordo nemmeno cosa, solo che a un certo punto la telecamera stringeva su due uccellini, due passerotti. Ecco, quel primo piano quasi casuale era la bellezza, che capita così, si infila saltellando mentre stai pensando ad altro, mentre stai parlando d’altro. Era un momento di bellezza così forte…


Se ho un rimprovero da farmi, è quello di non aver dato spazio a questa dimensione nelle cose che ho scritto… Per esempio, se penso all’infanzia come la descrivo nella Neve del Vesuvio, capisco che ne ho dato un’immagine luminosa, tutta in positivo… mentre invece, nella mia infanzia, ci sono state, come per tutti i ragazzini, cose terribili, cose degradanti. Forse mi ci sono avvicinato in Fiori giapponesi, in un raccontino che si intitola La mosca, quando parlo di un bambino che tortura una mosca, le strappa le ali e le zampette una ad una, e prova piacere a farlo, e sente di essere tutte e due le cose: sia il bambino che tortura la mosca, sia la mosca che è torturata dal bambino. Il punto di vista del bambino, per inciso, è quello di ritenersi onnipotente, come il Dio della mosca, mentre la mosca non sa cos’è la fetenzia che la riduce in quello stato. Ma insomma, di quelle cose lì non ho mai veramente parlato – credo per un senso di pudore.


Se penso alla mia giovinezza, è perlomeno curioso che io la immagini come un periodo dominato dalla felicità… eppure, felice non è stato. I Turbamenti del giovane La Capria ci sono stati, eccome! Ma, al momento di fare il famoso bilancio, saltano fuori cose che per me hanno un’enorme importanza e non c’entrano direttamente con quel che mi è accaduto, con la “partita doppia” del dare e dell’avere. Cioè, con le cose che vita mi ha dato e quelle che invece mi ha negato: un amore sfortunato, una difficoltà mai superata, un’umiliazione mai dimenticata, eccetera. Quando ero ragazzino, ero troppo sensibile, ero abitato da un’anima femminile e romantica che si turbava per una canzone, impallidiva nel vedere la ragazza amata, non riusciva mai a tener testa a un rivale – insomma, una rovina. Nel fisico ero piuttosto armonioso, avevo un corpo da statua greca, mi dicevano, una statuetta di Tanagra. Una ragazza, però, che mi piaceva, guardandomi con occhio benevolo e alludendo alla mia statura non proprio svettante, disse, facendo ridere gli amici presenti: “il modellino è carino, se lo sviluppate a grandezza naturale lo prendo!”. Ci restai male, e – beata ingenuità! – non capii che mi corteggiava. Sono questi gli sbagli della giovinezza… Ma riprendiamo il discorso sulla felicità. Le cose che mi hanno fatto pensare che la mia vita sia stata felice si ambientano nello scenario in cui ho patito anche i miei momenti più desolati. Erano il mare e la Natura, erano un palazzo magico sul mare di Posillipo, quel Palazzo donn’Anna che tante volte ho descritto nei miei libri, erano il mito della “bella giornata” mediterranea, era la sua luce intatta, le sue trasparenze, era un paesaggio come quello del golfo di Napoli, o quello che vedevo dalla mia casa di Capri, alta sulle rocce e in vista dei Faraglioni.


Noi, per abitudine, connettiamo la “simpatia” esclusivamente a un’idea, certo nobile, del bene, della possibilità di fare del bene agli altri… ma non si tratta solo di questo: la posta in gioco, infatti, è anche quella della propria salvezza, della possibilità di salvarsi. Bisogna capire quanto può essere importante, attraverso il mezzo della simpatia, il gesto di proiettarsi verso l’altro, che essenzialmente significa: capire quanto pesa il mondo sulle spalle.


Per quello che riguarda i “destinatari”, come si dice, dei libri che ho scritto, l’unica vera sorpresa è quando mi accorgo che qualcosa di mio è arrivato a persone insospettabili.
Oltre alle cose vere e proprie che dice, ogni scrittore ha anche una sua ineffabile “musichetta”, che è quasi indefinibile, ed è solo sua. È davvero un’esperienza straordinaria riconoscere che la propria “musichetta” è stata riconosciuta e apprezzata da qualcuno.

Torna indietro
***
***
***
* *