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CORRIERE DEL MEZZOGIORNO
13 maggio 2004


L’intervista a John Esposito

di Massimo Galluppi

Professore di “Religioni e politica internazionale”, fondatore e direttore del Center for Muslim-Christian Understanding alla Georgetown University di Washington, John L. Esposito è uno dei più eminenti studiosi ed esperti del mondo islamico contemporaneo. Proveniente da Londra e diretto a Milano per la presentazione dell’edizione italiana del suo ultimo libro (Unholy War: Terror in the Name of Islam), il prof. Esposito, ha raccolto l’invito rivoltogli dall’Università “L’Orientale” e dalla Fondazione “Laboratorio Mediterraneo” e terrà due conferenze a Napoli, la seconda consacrata al tema cruciale del rapporto tra Islam e democrazia.

(1) - In Occidente è diffusa la convinzione che l’Islam e la democrazia siano incompatibili. Lei non la pensa allo stesso modo. Ci spiega perché?
Nella storia moderna del mondo islamico i regimi autoritari sono stati e sono la maggioranza. I mussulmani sono stati governati da re, militari ed ex militari quasi privi di legittimazione, depositari di un potere garantito dal sostegno delle forze armate e degli appartati di sicurezza. In molti casi, l’autoritarismo religioso è stato la proiezione dell’autoritarismo secolare.
Autocrati e autocrazie, dunque, non sono stati l’eccezione ma la regola. Tuttavia, a partire dagli anni ‘80, è cresciuta la domanda di una più ampia democrazia: partecipazione politica, pluralismo, governo della legge, libera stampa. Sempre di più e un po’ dappertutto, vari segmenti della società, laici e religiosi, di destra e di sinistra, colti e incolti, hanno cominciato a considerare la democratizzazione come la prova del nove della legittimità dei governi e dei movimenti politici.

(2) - Mi sta dicendo che nei paesi islamici esiste una società civile che crede nella democrazia ed è disposta a battersi per ottenerla?
Negli ultimi anni, i risultati ottenuti dai movimenti islamici maggioritari e moderati (intesi come opposizione all’estremismo militante e violento) dimostrano fino a che punto sono diffusi comportamenti e valori che inducono al cambiamento democratico e allo sviluppo di società e Stati moderni. Dall’Egitto all’Algeria, dal Marocco alla Turchia, dalla Giordania al Kuwait, dall’Iran al Pakistan, dalla Malaysia all’Indonesia, attivisti e movimenti islamici si sono fatti interpreti di una visione alternativa della società e della politica e creato o diretto istituzioni non governative: scuole, ospedali, associazioni professionali, sindacati, e così via.
Non solo. Alla fine degli anni ‘80 e all’inizio degli anni ’90, candidati islamici sono stati eletti come sindaci o parlamentari in molti paesi islamici e, alcuni di loro, sono stati ministri o presidenti di parlamenti. Dopo l’11 Settembre, i partiti islamici hanno aumentato la loro influenza in Marocco, Pakistan, Turchia, Barhain.
Naturalmente, non dobbiamo sorprenderci se molti militanti islamici sono dei democratici illiberali. Laici o religiosi, sono cresciuti in società autoritarie e, per molti di loro la sfida, oggi, è trascendere la cultura e i valori dell’autoritarismo, capire l’importanza della condivisione del potere, del pluralismo e dei diritti umani.

(3) – Come hanno reagito i governi alle domande di questa società civile che muove i suoi primi passi e ai successi elettorali dei partiti islamici?
Poiché, legittimando gli islamisti e accrescendone la popolarità, rivelano anche la propria incapacità di fare politiche sociali adeguate, molti governi hanno percepito questi sviluppi come una minaccia. Di conseguenza, la società civile e le forze favorevoli alla democratizzazione sono state sottoposte al controllo crescente dei governi, messe in stato di assedio o costrette a battere in ritirata.
In genere la risposta di molti governi a questo potere politico dell’Islam è stata di identificare l’opposizione islamica con l’estremismo e di fare marcia indietro, rinunciando ad elezioni trasparenti o, più semplicemente, tornando al “tempo della onorata tradizione”, che poi è quella di cancellare, controllare o manipolare le elezioni, come in Tunisia, in Algeria, in Egitto e in Giordania.

(4) – In Occidente si ha l’impressione che la repressione sia giustificata dal fatto che i partiti islamici sono pericolosi. Condivide questa idea?
Questo timore nasce da un’idea semplificata dell’Islam. E’ vero che vi sono stati governi, gruppi e partiti islamici che si sono dimostrati antidemocratici, autoritari e repressivi, così come molte delle loro controparti laiche. Ma vi sono anche esempi di comportamenti più democratici.
Dopo l’11 Settembre la più chiara dimostrazione della possibile trasformazione dell’Islam in un grande movimento politico moderato e maggioritario è stata la vittoria in Turchia dell’AK (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) che ha conquistato la maggioranza parlamentare in un paese islamico a lungo considerato un esempio di democrazia limitata e il simbolo delli”Islam laico”.
L’AK è un partito moderato non estremista, con una base sociale molto ampia, sia in termini ideologici che di classe, come i partiti democratici cristiani in Europa. Sebbene molti dei suoi fondatori siano stati in passato leaders di partiti islamici, l’AK dichiara di non essere islamista. Il suo esempio dimostra che l’esperienza pratica della politica può portare al cambiamento.

(5) – Ma la Turchia non è, forse, un caso isolato?
Non c’è solo la Turchia. Prendiamo l’Iran che è stato a lungo considerato una minaccia terrorista. Oggi, l’Iran costituisce il miglior esempio del potere di mobilitazione di un appello per la democrazia. Le elezioni del presidente Khatami, il suo programma teso all’edificazione di una società civile e i conseguenti scontri di potere all’interno dell’establishment religioso devono essere inquadrati in questo contesto.

(6) – Ma le ultime elezioni in Iran non sono state un esempio luminoso di democrazia ...
Anche se non è ancora vincente la battaglia di Khatami per la democratizzazione della società iraniana è diventata parte della cultura politica e del dibattito pubblico. Le forze conservatrici hanno reagito arrestando e imprigionato i militanti liberali, ma questa linea di condotta ha cominciato ad essere contestata pubblicamente. Ovviamente, le ultime elezioni sono la dimostrazione di quanto siano forti i conservatori. Dimostrano anche che la maggioranza degli iraniani è favorevole alle riforme, ma che Khatami e i suoi amici non sono stati in grado di assicurare al movimento riformatore la leadership efficace che era necessaria.

(7) – Quindi, Lei crede che le forze e i movimenti favorevoli alla democrazia possono arrivare al potere attraverso un processo democratico. E’ così?
Questa è una possibilità reale. Malgrado il fallimento dell’Islam politico in Sudan, in Pakistan, in Iran e nell’Afghanistan dei Talebani e a dispetto dell’11 Settembre, l’Islam continua ad essere - e lo sarà per tutto il 21 secolo - una forza decisiva per lo sviluppo della democrazia nei paesi islamici, dal Marocco all’Indonesia. Il fatto che in molti paesi i governi sopprimano i movimenti islamici al primo segnale dell’emergere di un’opposizione politica degna di questo nome, ci fa capire che è così.
Naturalmente, gli ostacoli al cambiamento democratico sono enormi se si considera l’arroccamento delle elites del potere e delle forze militari e di polizia che le sostengono. Se questo blocco di forze concedesse la libertà di costituirsi e di fare opposizione ai partiti islamici, ai quali va il voto non solo dei propri sostenitori ma anche di coloro che vogliono semplicemente votare contro il governo, il suo indebolimento sarebbe sicuro.

(8) - Allora, Lei riconosce che i progressi sono minimi...
E’ in atto, sotto i nostri occhi, un esperimento aperto a esiti diversi. La storia della democrazia in Occidente è una storia di tentativi accompagnati (in Francia e in America, per esempio) da guerre civili e da conflitti ideologici e religiosi. Quindi, a loro modo anche le società islamiche impegnate nel tentativo di ridefinire la natura del governo e della partecipazione politica, così come il ruolo dell’identità religiosa, sono coinvolte in un delicato processo nel quale i rischi a breve termine sono il prezzo da pagare per i vantaggi virtuali a lungo termine. Il fallimento di questo tentativo può produrre solo alienazione, radicalizzazione ed estremismo. I governi che vi si oppongono possono farlo deviare o soffocarlo ma, così facendo, ritarderanno solo l’inevitabile.

(9) – Una delle ragioni evocate dall’Amministrazione Bush per giustificare la guerra in Iraq è stata la creazione di un governo democratico e la promozione della democrazia nel Medio Oriente arabo. Che cosa pensa di questa politica?
L’Amministrazione Bush ha sottovalutato il rapporto dinamico tra religione e politica in Iraq e il ruolo dei capi religiosi sciiti; e si è dimostrata impreparata di fronte alla rinascita religiosa e culturale che ha seguito il collasso del regime di Saddam Hussein.
Tutto questo è dovuto in parte alla tendenza ad esagerare il carattere laico della società irachena. Gli uomini di Bush non hanno capito quanto fosse importante l’identità sciita e il desiderio di molti sciiti di farla vivere in uno spazio democratico. Inoltre, questa visione fallimentare ha trascurato ciò che distingue i gruppi sciiti e i loro leaders fra di loro, i religiosi dai laici e gli estremisti da tutti gli altri.
Questo, e il tentativo di condizionare le istituzioni e le elezioni irachene, ha contribuito alla crescita dell’antiamericanismo e alla percezione degli americani e dei loro alleati come occupanti più che come liberatori.

(10) - Ritiene che l’Iraq sia un fattore cruciale nella politica americana nel Medio Oriente e nel processo di democratizzazione del mondo islamico?
L’Iraq, ma anche la Palestina. Al fallimento in Iraq si aggiunge quello della politica americana nel conflitto israeliano-palestinese. Anche se il risentimento causato dall’incapacità degli Stati Uniti di comportarsi come un mediatore onesto risale alla Road Map, è difficile sottovalutare l’impatto negativo della svolta del 15 aprile 2004, ossia dell’appoggio dato da Bush al cosiddetto “Piano Sharon”. Per molti è la prova più che evidente dell’alleanza tra il presidente americano e il premier israeliano e del fatto che la politica per la Palestina e per il Medio Oriente è decisa a Tel Aviv e a Washington.
La politica di Bush mina la credibilità degli Stati Uniti nel mondo arabo e musulmano e la possibilità di una soluzione del conflitto israeliano-palestinese fondata sull’idea dei “due Stati”; un conflitto che rimane critico non solo per la pace e la sicurezza degli israeliani e dei palestinesi ma anche per il futuro della democrazia nel Medio Oriente e per le relazioni del mondo mussulmano con l’Occidente.

(11) – Che cosa pensa delle torture inflitte ai prigionieri iracheni dai soldati americani? Thomas Friedman ha scritto sul NYT che moralmente è un disastro e Edward Kane - un ex agente della CIA in Medio Oriente - ha dichiarato che “da un punto di vista politico è peggio di una sconfitta militare” E’ d’accordo?
Assolutamente, sì. Anche se degne di considerazione, le scuse del presidente Bush e di alcuni funzionari americani non fanno che sottolineare la gravità del problema. Comunque sia, scuse pubbliche non possono cancellare né le immagini né la realtà di quanto è accaduto, le cui dimensioni ci sono ancora ignote. Il governo deve riconoscere che per affrontare questo problema non bastano le parole. La responsabilità degli alti gradi dell’Amministrazione deve essere riconosciuta.
Inoltre, non si tratta solo di pubbliche relazioni, è necessario un riesame della politica estera americana. I neoconservatori che hanno influenzato e troppo spesso guidato la politica estera dell’Amministrazione hanno fallito e devono andarsene. La politica estera americana deve essere più trasparente e multilaterale, più disposta a collaborare seriamente con gli alleati europei e arabo-mussulmani, più sensibile alle diverse realtà delle società arabe e mussulmane e non semplicemente a quella dei circoli di governo.


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