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Il Commento di Carmine Siniscalco
Direttore Studio S-Arte Contemporanea, Roma
Presidente Associazione Romana Gallerie d’Arte Moderna (A.R.G.A.M.)



Donne artiste dal mondo islamico in una città quale Napoli che è crogiolo di culture, culla di civiltà eterogenee, luogo antico e contemporaneo, perla e simbolo del Mediterraneo: evento significativo la cui valenza trascende la mera realizzazione di un’esposizione di gruppo e diventa messaggio, affermazione, presa di coscienza, ribellione. “Strappando i veli”, o in senso traslato “Rompendo le barriere”, approda a Napoli con il suo carico di opere firmate da 51 artiste che provengono da 21 paesi islamici, un vero e proprio “Salone d’Arte” ospitato dal Palazzo Reale, e presentato nel suo giusto valore dal Presidente della Royal Society of Fine Arts di Giordania, la Principessa Wijdan Ali, che sottolinea l’importanza di assumere il termine “islamico” nel suo significato non religioso ma culturale, quale riferimento ad una civilizzazione di grande rilievo nella storia dell’umanità.
Le 51 artiste sono di generazioni e paesi diversi, adoperano mezzi di espressione pittorica i più variati, possono essere inserite nei filoni più eterogenei della pittura contemporanea, rappresentano nell’attuale panorama artistico una realtà che sta lentamente acquistando una sua definita fisionomia e che merita di essere promossa e conosciuta all’estero, soprattutto, anche se non soltanto, per il significato simbolico sottolineato dal titolo dato alla Mostra.

Appare innanzi tutto evidente che astrazione, figurazione, arte concettuale, manierismo, folclore, gestualità, espressionismo lirico, simbolismo, surrealismo - termini questi che ricorrono di solito nelle presentazioni che accompagnano le mostre d’arte – sono termini tutti riconducibili all’una o all’altra delle artiste presenti in questo Salone, che come tutte le rassegne di questo tipo non ha un comune denominatore strettamente artistico che individui i partecipanti, qualificati soltanto dal fatto di essere donna e di appartenere al mondo islamico. Di fronte a questa Mostra devono pertanto cadere alcuni pregiudizi avvalorati anche da testi di critici occidentali che non riconoscono alla pittura figurativa diritto di esistenza nel mondo islamico. Bastano a dimostrare il contrario le presenze di Tina Ahmad (1950) del Bangladesh, della saudita Fahda Bint Saud (1953) e della palestinese Mounira Nousseibeh (1943) con la loro pittura fortemente rappresentativa di luoghi e costumi; di Suad Attar (1939), irachena, con le sue evocazioni mitologiche e ambientazioni popolari; di Thuraya Baqsami (1952), del Kuwait, con le sue figure emblematiche; delle algerine Baya (1931-1999), che con i suoi uccelli ed animali negli anni ’40 incantò lo stesso Picasso, e Houria Naiti (1948), espressionista dalla ricca tavolozza cromatica che si oppone con le sue opere all’immagine stereotipa della donna araba; della giovanissima giordana Karima Bin Othman (1972) con il suo corredo di maschere e tipologie umane; della sudanese Kamala Ibrahima influenzata nei suoi soggiorni di studio a Londra dall’arte drammatica di Bacon; dell’egiziana Rabab Nimer (1940) dalle simboliche ed enigmatiche forme umane ed animali; della libanese Juliana Seraphime (1934) dal deciso impianto surrealista-fantascientifico; e della turco-giordana Fahreinissa Zeid (1901-1991), versatile e prolifica artista dal ricco curriculum, nota per i suoi storici ritratti ispirati allo stile bizantino quanto per le sue composizioni astratte.

Elementi figurativi sono evidenti anche nelle opere di Mariam Abdul Aleem, egiziana (1930), che inquadra i suoi segni in forme-cornici realizzate con elementi organici; della libanese Etel Adnan (1925), dal 1964 alla ricerca di una relazione tra scrittura e immagine; della pakistana Mehr Afrore (1948) dalla ricca simbologia femminile che si staglia prepotentemente contro fondi trattati come
superfici monocrome; della turca Tomur Atagok (1939) le cui figure, in particolare le femminili, sono frammentate, sezionate e trasformate in simbolici messaggi; della palestinese Rana Bishara (1971) che partendo dall’elemento figurativo della foglia del cactus crea composizioni astratte tridimensionali; della tunisina Meriam Bourdebala (1960), pittrice e scenografa, le cui forme nate da fondi trattati con sabbia stimolano con i loro segreti messaggi l’immaginazione del fruitore; della irachena Lisa Fattah (1941-1999), nata in Svezia, educata in Italia e Spagna e quindi in Iraq con il marito scultore iracheno, che ha sposato la causa del suo popolo d’adozione trasferendo sulla tela parole, forme elementari e segnali di una incontrollabile rabbia interiore; della palestinese Jumana Husseini (1930), emigrata a Beirut e trasferitasi quindi a Parigi, pittrice di immaginari orizzonti che nascono da lineari simboli calligrafici ; della pakistana Nazr Ikramullah (1939), attualmente in Canada, che focalizza eventi politici servendosi delle tecniche più diverse, dalla stampa al laser all’acquarello, dal pastello all’incisione ed al collage; della tunisina Rim Karoui (1967), dalle affollate composizioni di elementi calligrafici e figure legate alla tradizione naive ed ai graffiti delle caverne; dell’irachena Leila Kawash (1945) che lancia messaggi di protesta contro le frontiere blindate con opere dai colori delicati e trasparenti che includono scritti in prosa, versi e collages fotografici; di Maisoon Qasimi (1958), degli Emirati Arabi, autodidatta, che contrappone le figure espressioniste dei primi piani alle calligrafie astratte dei fondi dei suoi quadri; la pakistana Nahid Reza (1947) che rappresenta simboli orientali del pensiero e del desiderio femminile con tecniche proprie dell’arte occidentale; la malese Nirmala Shanmughalingam (1941), artista impegnata socialmente e politicamente che ha dipinto i conflitti in Viet Nam, Afghanistan e Libano utilizzando anche scritti in lingua originale; e delle palestinesi Laila Shawa (1940), che si batte per la causa del suo popolo senza libertà di espressione con opere suggestive ricche di graffiti e scritte, e Samia Zaru (1938), altrettanto impegnata, che inserisce nelle sue forti e colorate composizioni elementi di ricami e tessuti del suo paese.

Nawal Abdallah, giordana (1951), Kanak Chakma (1963), del Bangladesh, e Rabha Mahmoud (1949) dell’Oman sono protagoniste di una pittura gestuale ricca di colore e creatività espressiva.

Le artiste che si dedicano decisamente all’astrazione sono anche numerose, e tutte contrassegnate da un cromatismo violento, e talvolta azzardato, che rivela le radici profonde dei loro paesi d’origine. Di seguito le ricordiamo : Balqees Fakro (1950), del Bahrein; Samia Halabi, palestinese (1936); le marocchine Sohad Fachiri (1946) e Naja Mehadji (1950); la siriana Laila Muraywid (1956); la giordana Hind Nasser,i cui soggetti in gran parte riflettono la natura in tutte le sue forme, con immagini oscure campeggianti su aree di colore; l’egiziana Naima Shishini (1929) nota nei circuiti internazionali; le giordane Suha Shoman (1944), le cui opere astratte sono attraversate da circuiti di linee che creano forme, Rula Shukairy (1957) dagli impianti monocromi, Dodi Tabbaa (l952) che crea effetti di teatro delle ombre con elementi geometrici e gestuali, e Wijdan (1939) le cui composizioni astratte, caratterizzate da una tecnica molto personale e particolare di sovrapposizione di colori graffiati ed incisi, diventano messaggi di denunzia contro le offese alla dignità umana perpetrate nel mondo intero; la malese Sharifah Fatimah Syed Zubir (1948) le cui forme colorate fluttuano in un mistico labirinto di colori accesi e vibranti; e la turca Su Yucel (1961), colorista accesa che si è formata a Strasburgo e che, nell’olio e nell’acquarello, crea vibranti sinfonie di gradazioni di colori.

Le indonesiane Umi Dachlan (1942) e Heyi Ma’mun (1952) sono,la prima, una delle più importanti pittrici astratte del suo paese che utilizza l’oro ed altri metalli creando composizioni che testimoniano le radici orientali della sua creatività , e la seconda artista dalle enigmatiche poetiche composizioni su fondi scuri quasi monocromi. Astratte sono considerate anche la yemenita Amna Nusairy (1967) che in realtà si ispira ai motivi decorativi delle ceramiche e dei tessuti del suo paese e presta attenzione alla forma grafica di oggetti ornamentali, in un tripudio di colori e di simboli ornamentali, e la irachena Hana Malallah (1960) che anche utilizza materiali organici - carta, cartoni, tessuti ed altre materie -.nelle loro originali forme e colori, trasformando alla fine composizioni astratte in superfici emblematiche con riferimenti diretti a problemi umanitari.

Samira Badran, palestinese (19549, descrive la penosa situazione del suo popolo utilizzando il mezzo fotografico con una speciale tecnica di ritocco pittorico.

Chiudiamo questa carrellata di nomi con le due artiste iraniane presenti nella mostra, Simin Maykadehna (1947) e Haideh Sharifi (1963), che rappresentano tendenze diverse entrambe affermate nel paese: la prima ha studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti e la sua pittura, risultato di un vero intrecciarsi di culture diverse, unisce il senso del monumentale e dello stilizzato, in una figurazione dalle estese campiture di colore che trasmettono l’immagine del silenzio. La seconda parte dall’arte classica islamica ed utilizza nelle sue tecniche miste elementi architettonici e decorativi che si stagliano su fondi ravvivati dai caratteri della calligrafia araba.

La presentazione di questa mostra non può che limitarsi ad offrire un panorama delle opere esposte, ed eventualmente classificarle, come si è tentato di fare, senza esprimere giudizi critici sulla loro qualità, in primo luogo perché non si saprebbe su quale metro costruire questo giudizio, trattandosi di espressioni d’arte che appartengono ad un mondo e ad una cultura che conosciamo solo marginalmente; ed in secondo luogo perché sarebbe assurdo pretendere un medesimo livello di valori in un’esposizione che si presenta quale Salone d’Arte, con un’opera per ogni artista, pretesa che d’altronde non è mai avanzata nei confronti di manifestazioni similari organizzate in Europa con artisti europei. Sarebbe d’altronde ingiusto e limitativo prendere in considerazione un’iniziativa quale questa di “Strappando i veli”, che vuol anche dire eliminare pregiudizi, oltrepassare confini, “rompere le barriere”, lasciandosi condizionare da un’attenzione alla mera qualità della pittura ed ignorandone il significato più intimo e profondo di manifestazione destinata a far conoscere in una sua diversa dimensione, che è quella dell’arte, la donna del mondo islamico “strappando i veli” soprattutto simbolici che la nascondono ai nostri occhi e le impediscono di affermarsi , oggi, nei paesi islamici e nel mondo. Interessa a questo proposito sottolineare quanto sia invece importante la quasi costante presenza in queste opere dell’impegno politico e sociale, anche in quelle composizioni che a prima vista sembrerebbero interessanti soltanto dal punto di vista estetico, quest’ultimo in realtà quello meno preso in considerazione dalle artiste quale finalità del loro operare. Ed è questo impegno che fa di queste opere un insieme unitario e ne giustifica la presentazione in paesi stranieri per la prima volta messi in contatto, su scala così vasta, con una realtà diversa, affascinante, intrigante e coinvolgente.

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