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MEDITERRANEO E ISLÀM
Incontro con l’autore di “Lettera a un Kamikaze”
Khaled Fouad Allam e Massimo Galluppi



Caterina Arcidiacono: In occasione di Galassia Gutenberg siamo testimoni di un momento di grande discussione sia con la città sia all’interno della Fondazione Laboratorio Mediterraneo: abbiamo Khaled Fouad Allam. Ci parlerà del suo ultimo libro “Lettera a un Kamikaze” insieme a Massimo Galluppi, Consigliere Regionale e professore all’Università Orientale di Napoli. Si tratta quindi di un dialogo tra persone ed Istituzioni: Fouad Allam è algerino di origine, cittadino italiano, docente all’Università di Triste ed Urbino, membro della Fondazione Laboratorio Mediterraneo. Lascio a loro due il dialogo, che diventerà però un dibattito grazie alla presenza e all’interazione con noi che siamo presenti in questa sala.

Massimo Galluppi: Credo che il modo migliore per iniziare la presentazione di un libro, che in questo caso è “Lettera ad un Kamikaze” di Khaled Fouad Allam, sia conoscere qualcosa del suo autore. Khaled Fouad Allam è anche un noto editorialista: prima scriveva per la Stampa di Torino, ora per Repubblica.
In un suo articolo pubblicato su Repubblica nell’ottobre scorso, Lei ha parlato della sua infanzia, dell’intreccio che c’è stato nella vita della sua famiglia con la guerra di liberazione algerina. Potrebbe dirci qualcosa di più sugli anni successivi, sulla sua adolescenza e sulla sua formazione?

Khaled Fouad Allam: Gli anni della post-indipendenza, perché io sono nato all’inizio della guerra algerina, sono stati anni belli ma difficili. Sono stati belli, in quanto anni della costruzione di una nazione e di un popolo; ciascun algerino si sentiva un po’ il depositario del futuro del suo paese. C’era una situazione particolare in Algeria: il nazionalismo e tutto il “cocorico verde” facevano un po’ da sfondo all’andamento del paese stesso. Ma sono stati anche anni difficili per me: appena finita la guerra nel ’64 vedevo di nuovo mio padre preparare la divisa militare, perché iniziava un nuovo conflitto. Era il conflitto tra Marocco ed Algeria a causa dell’annosa questione dei confini tra il Sahara algerino e il Sahara marocchino. Ricordo come fosse ieri che quattro anni dopo ci fu la guerra dei sei giorni: si aggirano ancora nella mia mente il delirio della folla, i ragazzi che gridavano e manifestavano nelle strade della capitale e quelli che stavano per partire. Sono stati anni duri, anche dal punto di vista economico; era un periodo in cui la politica dello stato era improntata a una specie di neo-marxismo edulcorato e dunque ad una forte sensibilizzazione che tendeva a stringere lo spazio delle libertà personali e dunque coinvolgeva direttamente proprio il mio papà che fu direttore dell’informazione e della radiotelevisione algerina per il dipartimento di Orano. Sono stati anni anche di forti conflitti fra il partito unico al potere: il Lefelen e gli altri movimenti liberali che maturavano all’interno della società. Parliamo di anni in cui, in pratica, il paese era impegnato in una specie di corpo a corpo con la povertà ambientale. Ho in mente qualche immagine della mia scuola, si chiamava Capitan Gianlurl: era una vecchia caserma francese fatta di assi metalliche. Ricordo una giornata d’inverno in cui una delegazione, forse degli Stati Uniti, venne a regalare ai bambini, la maggior parte dei quali veniva a scuola scalza, dei bornusque: cappotti di lana grezza. Mia madre, che era la direttrice della scuola, mi disse che noi eravamo benestanti e quindi non dovevamo accettare il cappotto. Erano inoltre gli anni in cui iniziavano le politiche di arabizzazione, ricordo una lotta pazzesca fra un ragazzo e un docente di arabo di origine Palestinese. Ecco: erano anni in cui tutto è il contrario di tutto, ma si assisteva in ogni modo alla nascita di qualcosa di nuovo che fuoriesce dal desiderio forte e sentito di questo popolo di costruire la sua libertà attraverso uno schema statale, uno schema nazionale. Sono gli anni di cui ricordo la bellezza dei paesaggi: la bellezza naturale di questi paesi, quelli che hanno costruito la mia memoria intima ed individuale.

Massimo Galluppi: Passiamo adesso alla lettura di questo libro così denso di motivi di riflessione. Le confesso che, a parte il piacere di conoscerla personalmente, avendo letto qualche tempo fa “L’Islam globale”, che Lei ha pubblicato con Rizzoli nel 2002, ho accettato volentieri di presentare questo suo nuovo libro nel tentativo di capire come un giovane di vent’anni, lo Shahid immaginario, virtuale della sua opera, possa decidere di sacrificare la propria vita per compiere un attentato ed entrare così nel paradiso Islamico. Scusi la banalità: volevo arrivare rapidamente al nocciolo del problema e cioè il tentativo di convincere il giovane kamikaze che sta facendo una scelta sbagliata, che è stato ingannato dagli “apprendisti stregoni”, espressione che lei usa nel libro, i quali lo hanno convinto a scegliere la strada del martirio. Lei usa due registri di comunicazione: inizialmente parla allo Shahid facendo leva su quello che dovrebbe essere il naturale attaccamento alla vita e utilizzando immagini prese dal mondo che sta per lasciare. All’inizio del libro, il giovane Shahid si alza all’alba e si avvia verso l’atto che ha scelto di compiere. C’è il vento gelido, che percuote il suo viso, c’è il ritmo del suo passo, ci sono gli alberi e il cielo che lui vede mentre si allontana dalla sua casa. Poi però, molto rapidamente, Lei si inoltra in una disquisizione dotta sul Corano e sul significato della sua rivelazione, cercando di convincere il giovane Shahid dell’imperfezione della sua lettura e conoscenza del testo sacro, poiché il Corano è un testo complicato, che richiede una capacità di lettura ermeneutica. Da qui la mia domanda: non le sembra che questo cambiamento di registro sia chiedere troppo al suo interlocutore immaginario che, come lei dice, è un ragazzo di vent’anni? Non le sembra di idealizzare le sue capacità di dialogo in un capitolo dell’”Islam globale” che io ho apprezzato molto: il capitolo intitolato “L’ingegnere terrorista”, lei infatti scrive: “Negli anni ottanta la formazione e la trasmissione del sapere dell’Islam - sto citando - cominciano a uscire dagli ambiti tradizionali per approdare in altri spazi destinati a diventare la sede principale della contestazione islamica. Questi spazi sono i campus universitari e le moschee di quartiere. Contemporaneamente - lei scrive - nasce una nuova figura di intellettuale ed è, questo, un intellettuale che comunica con i giovani non più facendo leva sulla loro ragione critica, ma sul loro immaginario e usa strumenti nuovi: gli strumenti della comunicazione tecnologica che c’erano in quegli anni: le videocassette e le audio cassette”. Poi conclude questa parte del suo libro puntando a questo nuovo intellettuale, alla costruzione di un uomo di nuovo tipo, che adotta comportamenti di nuovo tipo. Tutto questo mi ha aiutato a capire da dove viene lo Shahid, il martire per la fede, ma io continuo a chiedermi chi sia realmente, che cosa avviene soprattutto durante quell’itinerario di morte e di abbandono di cui Lei parla nel suo libro. Mi riferisco a quando il giovane Shahid si trova n uno stato dissociato, è fuori dal mondo, quando il suo corpo si è separato dalla sua anima, non gli importa più nulla, l’ unica cosa che gli importa è il gesto e l’ attimo della morte. Ci vuole quindi spiegare: chi è lo Shahid, il kamikaze, il martire per la fede?

Khaled Fouad Allam: E’ una domanda complessa che probabilmente necessiterebbe di un ampio trattato e non di una lettera. Possiamo avere una chiave di lettura razionale attraverso la ricerca e la promozione di una lettura di Galileo in grado di definire ciò che è in atto sia a livello individuale nell’Islam, sia a livello direi collettivo. I due registri sono una scelta deliberata in questa lettera: in primo luogo perché è una lettera, secondo perché, in realtà, mi riferisco a due personaggi che sono un po’ la “catena della formulazione” dello Shahid. Uno ovviamente è colui che metterà le bombe per ammazzare le genti e l’altro è quello che io chiamo “il cattivo maestro”, perché se cito passaggi del Corano, della tradizione profetica, del Tarzicher, non è gratuitamente: so benissimo che nel loro lavoro di produzione ideologica occultano completamente l’aspetto complesso delle scienze coraniche e la mia è un’opera di decostruzione. Io non posso denunciare dicendo “no basta tu, maestro, sei cattivo”, ma devo dire quello che lui occulta, le menzogne e le bugie che dice. C’è un doppio destinatario di questa lettera. Perciò c’è un doppio linguaggio: è vero che stilisticamente sono linguaggi diversi: sin dall’inizio c’è un linguaggio essenzialista. E’ un attimo in cui, tutto sarà capovolto (parlo di un braccio, anche di una mano tesa), rovesciato. In un certo senso, la personalità umana viene completamente capovolta da questo atto in una dimensione individuale che è la sua, perché morirà, e anche in una dimensione collettiva, perché lo Shahid lascia tracce pericolose che possono avere effetti devastanti sull’intero mondo musulmano. Egli, infatti, vede benissimo il rischio in cui incorre il mondo musulmano oggi: passare da una colpevolezza individuale ad una collettiva. Lo Shahid è quindi il prodotto di una crisi profonda dell’Islam contemporaneo. E’ la crisi di ciò che io chiamo “trasmissione della memoria”, dell’affiliazione religiosa: i ragazzi e le giovani generazioni non si riconoscono più nella religiosità dei loro padri e vedono in questo la disfatta non dei loro genitori ma di tutto l’Islam. Qui interviene il mio libro: sul sentimento interiorizzato dal mondo musulmano di essere ai margini della storia, di essere gli eterni perdenti della storia. E’ un malessere individuale che diventa anche un malessere collettivo. In questo senso lo Shahid è il prodotto, come dice anche l’autore tunisino Medev, di una grave malattia dell’Islam della quale potremmo parlare a lungo, ma anche tacere.

Massimo Galluppi: Di fatto Lei ha già toccato il tema che io avrei voluto proporle immediatamente dopo la prima domanda. C’è un passo del suo libro in cui, facendo riferimento al senso di colpa collettivo che può crescere nell’Islam Lei scrive: “La paura si diffonde quasi fosse un acido che si propaga nell’atmosfera e oscura quello che realmente siamo e viene macchiata la testimonianza stessa dell’Islam, rischiando di trascinare nell’abisso l’intero mondo islamico”. In questo modo Lei esprime quello che diceva prima: questo possibile senso di colpa collettivo. D’altro canto nell’“Islam globale” Lei scrive che il diffondersi del neofondamentalismo e del radicalismo nei paesi islamici ha provocato e sta provocando una reazione. Una reazione che ha fatto emergere nuovi attori che dissentono sul ruolo da attribuire all’Islam nella società. Poi lei elenca questi attori: donne, insegnanti, intellettuali, artisti, difensori dei diritti dell’uomo. Ecco, io volevo chiederle: pensa che questo timore possa essere un fattore importante nell’indurre la maggioranza dei musulmani in occidente e nel mondo arabo a rifiutare il terrorismo? E fino a che punto questo rifiuto del terrorismo a livello morale, a livello intellettuale può trasformarsi in un’azione positiva per combattere il terrorismo?

Khaled Fouad Allam: Qui si apre la questione del ruolo che possono avere le culture nel frenare questi fenomeni. Cinque giorni fa ero a Gerusalemme a presentare l’edizione in lingua ebraica del mio libro, ed ho avuto un dibattito abbastanza accesso con dei palestinesi israeliani che mi hanno detto: “come puoi, tu che sei di origine algerina, scrivere un libro del genere, quando il tuo popolo ha avuto un milione di Shahid?” Ho risposto loro: “non conoscete la storia; anch’io ho avuto degli Shahid nella mia famiglia, ma lo Shahid di guerra algerino è totalmente diverso da quello del conflitto palestinese. Non si ammazzava per ammazzare degli innocenti”. Così ho percepito, in un certo senso, qual è la grande mancanza all’interno del mondo musulmano e del mondo arabo in particolare. Se lo Shahid è il prodotto di questa crisi dell’Islam è perché è mancato qualcosa in tutti i paesi islamici: la cultura e la conoscenza della storia, del loro mondo, dei loro testi. Il penultimo rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano nel mondo arabo diceva, ad esempio, che oggi l’insieme dei paesi arabi si traduce in un Paese come la Corea del Nord. Tutto il patrimonio che il mondo arabo ha saputo costruire intorno all’inizio del secolo: la scienza, la poesia, ecc, è completamente scomparso. Negli ultimi 30-40 anni, a partire dalla rivoluzione iraniana, si è diffusa una letteratura meramente ideologica. Uno dei testi più letti nel Magreb degli anni ‘80, poi vietato, era un romanzo che raccontava gli atti “eroici” di alcuni magrebini in Afghanistan: il mito del soldato funzionava da elemento che trascinava il lettore. Per tornare alla Sua domanda, l’ideologia del fondamentalismo islamico ha cercato di creare, come nel marxismo, un uomo nuovo, completamente decontestualizzato dalle sue tradizioni storiche, intellettuali e filosofiche. Si tratta di qualcosa di inedito anche per l’Islam e noi dobbiamo lottare contro di esso. Come possiamo lottare? Non è il decreto di un governo a cui puoi opporti, occorre un lavoro interno alla società: deve diventare massa critica anche per l’Europa. I musulmani sono importanti anche perché possono fare da massa critica e mostrare che è possibile avere un’altra visione dell’Islam. Le religioni non sono solo dei sistemi astratti: si incarnano in qualcosa. E dove si incarnano? In noi esseri umani. Dunque la cultura è quello che permette di produrre la massa critica necessaria a qualsiasi discorso religioso: una religione senza cultura soffre sempre del pericolo di diventare ideologia. E quanto è successo nell’Islam, dove si è spezzato il rapporto tra religione e cultura e, al posto della cultura, è sorta l’ideologia politica. Ed è venuto quello che io non esito a chiamare totalitarismo, come il nazismo e come il fascismo.

Massimo Galluppi: Ritorniamo sul tema che lei ha già sfiorato nella sua risposta precedente; a un certo punto lei pone allo Shahid una domanda cruciale: “Ti sei mai chiesto se la violenza possa essere una risposta alla violenza, se possa mettere fine alla violenza?” e poi richiama la sua attenzione su questa lettura che, come lei diceva, è decontestualizzata, letterale della tradizione coranica e quindi erronea. Ora secondo me questo passo del suo libro ci pone di fronte a due ordini distinti di problemi. Il che significa che devo porle due domande contemporaneamente. Prima domanda: lei crede davvero che la violenza non serva mai a mettere fine alla violenza? Non si tratta, invece, della forma che la violenza assume? Quando ho letto questo passo, mi è venuta in mente la guerra rivoluzionaria combattuta dal partito comunista “IEDAM”, di cui mi sono occupato in passato. Il riferimento che lei ha fatto all’Algeria è lo stesso. Quindi in realtà la violenza a volte può servire: è la forma che la violenza assume che è importante. Seconda domanda: lei definisce decontestualizzata ed erronea la lettura del Corano che i “cattivi maestri” dello Shahid fanno. A pagina 57, lei pone il problema, secondo me centrale in questo momento nell’Islam, dell’autorità in materia di fede e dice: “ed è proprio la questione del maestro, dell’autentico maestro e della sua autorità che si ripropone oggi nella drammaticità di eventi che sembrano sfuggire alla razionalità. Allora io le chiedo perché le autorità religiose del mondo islamico non alzano la loro voce per dire le stesse cose che lei ha detto in questo libro. Oppure ho pensato anche ad un ipotesi alternativa, forse lo fanno e noi non lo sappiamo. Qual è la verità, qual è la risposta che lei può dare a queste due domande?

Khaled Fouad Allam: rispondo subito alla seconda domanda. Nel mondo islamico sunnita, diverso da quello sciita in cui c’è una gerarchia sacerdotale e dunque un potere religioso distinto da quello politico, siamo in un regime di autonomia. Nel mondo sunnita il problema di sempre, accentuatosi dopo la caduta dell’Impero Ottomano nel 1924, è quello dell’autorità. Nell’Islam dal punto di vista religioso non c’è autorità perché, ad esempio, i musulmani non si riuniscono in concili. Quindi l’interpretazione che noi possiamo avere delle questioni centrali possono essere variegate a seconda della sensibilità, dei gruppi comunitari oggi degli Stati. Ad esempio la Libia riconosce il Corano, ma non la tradizione profetica. L’interpretazione che il Codice di Famiglia può avere in Tunisia è diversa da quella che ha dato l’Algeria qualche giorno fa. Nel 1956 il Borghiva fece abolire il regime poligamico nei regimi matrimoniali islamici. Tutto ciò esiste, perché manca alla base l’idea di autorità. Non di autorità nel senso di autoritas cioè non nel senso medievale della parola di grande intellettuale, ma i cleri e i famosi dotti “lioleva” in realtà hanno poco peso sulla società e questo rende estremamente difficile la gestione stessa del fenomeno religioso. In un momento in cui, la nostra contemporaneità è caratterizzata da questo nell’Islam, in cui gli stessi cleri tradizionali sono delegittimati dai nuovi intellettuali dell’Islam. Che cosa dice il militante, il fondamentalista islamico al clero? Dice, no sono io che ho la verità e sono io che ho l’interpretazione giusta del testo cranico tu sei un teologo del principe. Ecco questa è la dialettica attuale. E questo fa sì che ad esempio oggi se c’è qualcosa che caratterizza la situazione epistemologica ed ermelogica del mondo islamico è che l’interpretazione cranica oggi è monopolizzata, ma anche in Europa, dal fondamentalismo islamico. Cioè l’interpretazione dei testi sacri è assolutamente definita in funzione di una rivisitazione neo-ortodossa e neo-fondamentalista. Allora cosa si può fare? Tutto è rimbalzato sulla società, come massa critica. Sulla capacità che i musulmani definiscano domani degli interpreti che siano in grado di avere una visione più critica e più equilibrata. Poi c’è anche un altro fenomeno: qual è il tipo di lettura che fanno oggi i musulmani? C’è un grande studioso dell’Islam del 500: Iber Haldun che, nel suo testo “Mocandima” sostiene che il Corano è un libro pericoloso. Cosa voleva dire? Voleva dire che il Corano non può essere letto così come leggiamo il Vangelo o la Bibbia. C’è bisogno di uno strumento: il commentario cranico. Ciò che fa il radicalismo islamico è togliere totalmente il tassè tradizionale classico e inventare un commentario di tipo ideologico che impedisce la lettura critica di questo commento. Quindi la questione dell’autorità è centrale, ma sarà una questione molto lunga e difficile e bisognerà certamente costruire dei ponti tra l’Islam che si sta costruendo in Europa e l’Islam nel resto del mondo musulmano. L’altra domanda è legata alla violenza ed è una questione complicata. Io personalmente ho sempre pensato che l’uso della violenza non metta sempre fine alla violenza. Invece penso che fare questo significhi entrare in un ciclo perverso dal quale sia difficile uscire, ma attenzione: ciò è legato anche alla lettura del Corano che possiamo dare. Prima di tutto, tutte le società producono violenza, non esistono società che non producono violenza. Essa è strutturale all’idea stessa di società, ma non tutte le società risolvono allo stesso modo la questione. Nel Cristianesimo, ad esempio, la problematica della violenza è risolta attraverso la figura paradigmatica di Gesù Cristo in croce. Attraverso la crocifissione e la resurrezione Cristo si assume tutto il male e tutti i peccati del mondo e li risolve. Non vuol dire che i cristiani non sono stati violenti, ma c’è questo elemento centrale, questo paradigma, che permette al cristiano di uscire dal ciclo della violenza e di risolvere la problematica. Nell’Islam la violenza è presente, nel Corano ci sono tantissimi versetti estremamente violenti, ma ci sono anche tanti altri versetti che negano la violenza. Cosa significa questo? È quello che ho chiamato: “Il gioco delle doppie verità”. E’ presente nel sistema coranico la verità nella storia, là dove esplode il sistema della violenza; ma poi c’è la necessità di trascendere, di superare la violenza attraverso una verità che nega la storia oppure che la ricostruisce su un altro paradigma. La ricostruisce su un paradigma non più storico, ma universale. Sono tutti versetti importanti: cito “L’immagine dell’ulivo” il Corano che recita di un albero, un ulivo che è l’immagine della Santità anche nell’Islam, nell’Oriente e nell’Occidente. Cioè la deterritorializzazione della verità che si inscrive in una prospettiva geografica e storica. Oppure un versetto recita: “Se Dio avesse voluto fare di voi uno in un’unica comunità, l’avrebbe fatto. Andate gli uni e gli altri verso le buone azioni e un giorno Dio vi spiegherà il perché delle vostre divergenze”. Ma il passare dalla storia all’universalismo implica un lavoro di interiorizzazione spirituale: quello che non fanno i fondamentalisti. Poi c’è la grande questione: “la violenza è necessaria o no?”. Nel caso della guerra di Algeria senz’altro, anche se talvolta, a quarant’anni di distanza, visti i milioni di martiri anche in Algeria, mi chiedo come mai non sia succeduto un “Mandela” come, ad esempio, in Sud Africa. All’Algeria forse è mancato la figura di un Mandela per superare sette anni di guerra. Forse nella figura del kamikaze, dello Shahid, questa violenza è totalmente diversa. È una violenza che va al di là della violenza stessa, per la quale ovviamente non abbiamo nemmeno un lessico appropriato, perché anche per la storia del mondo musulmano è qualcosa di inedito: ammazzare sé stessi per ammazzare degli altri. È qualcosa che fuoriesce dalla razionalità della storia, che ha a che fare secondo me più con la psichiatria collettiva, con situazioni collettive di schizofrenia. Un mio collega iraniano, autore di un libro scientifico su questo fenomeno, lo ha chiamato “martirio patologia”. Quando leggiamo che alcuni di questi ideologi leader del fondamentalismo islamico gridano: “Noi amiamo la morte!” assistiamo ad un rovesciamento totale di ciò che è il principio stesso della vita, per il quale noi siamo inscritti nel mondo. E su questo io ho redatto la lettera. Sono stupefatto, perché di fronte a tanto credo che l’umanità non abbia parole. Resta senza parole, e non esito a dirlo, esattamente come per gli ebrei il dramma dello shoah. Io resto stupefatto di fronte a ciò che l’umanità è capace di produrre e la storia mostra, credo che ancora oggi i mussulmani non si rendano conto di ciò che è stato fatto all’interno della loro civiltà.

Massimo Galluppi: è la penultima domanda e all’ultima tengo particolarmente. Mi ha colpito nel suo libro il rapporto dell’Islam con il suo passato, quello che lei dice sul rapporto con il suo passato. Questo luogo dai mille ricordi: Bagdad, Damasco, Cordoba, Toledo. Ma perché il mondo islamico a differenza dell’occidente non riesce a liberarsi di questa schiavitù nei confronti del proprio passato, non riesce ad elaborare il lutto della propria decadenza? Lei dice, in un altro passo del libro che la nostra incapacità e la nostra rassegnazione di fronte all’assenza di giustizia, di libertà, di democrazia, cio è la crisi della nostra società che ci trascina verso il nostro passato. Anche l’Occidente ha avuto momenti di crisi forse altrettanto gravi, però non ha mai avuto questo attaccamento così profondo nei confronti del proprio passato. C’è un altro passo che mi è piaciuto molto,lei dice di conoscere delle famiglie Magrebine o Marocchine che conservano ancora la chiave della loro casa in Andalucia prima della cacciata nel 1492. Queste famiglie conservano ancora la chiave della loro casa in Andalucia, che passa da generazione in generazione. Perché non la buttano via?

Khaled Fouad Allam: Credo, come ho detto nel libro, che il mondo musulmano non ha saputo elaborare il lutto della sua decadenza. È necessario saper elaborare il lutto per poter abbandonare, ma anche per poter andare avanti e questo il mondo musulmano non l’ha fatto. Poi influisce probabilmente anche tutto quello che è successo nel ‘900. La costruzione di una nuova personalità musulmana nel nazionalismo arabo, ad esempio, che sublima il passato. L’ho scritto oggi sulla Repubblica nel mio articolo sulla questione del Codice di Famiglia algerino, quando alla fine dicevo “ogni arabo è nostalgico della propria arabità”. Non siamo però stati capaci di esprimere l’idea di arabità attraverso la lingua, attraverso la religione, attraverso un codice culturale. È mancato ciò che, ad esempio, sono riusciti a fare gli ebrei. La cultura ebraica si è espressa attraverso dei vettori culturali che non sono assolutamente ebraici. C’è una letteratura ebraica che si esprime in inglese, ho incontrato a Gerusalemme una scrittrice ebrea di origine cinese che scrive in cinese. Noi non sappiamo farlo questo, perché siamo prigionieri di un mondo che non esiste più. E probabilmente noi abbiamo bisogno di quella chiave, non per ritornare nel passato ma, per uscire dalla prigione.

Massimo Galluppi: nel suo libro il tema del perdono è centrale. Lei scrive: “ciò che oggi manca alla nostra disperata umanità è la libertà di perdonare”, poi aggiunge “il perdono non si conquista con una battaglia”. Io mi occupo di politica internazionale, quindi ha catturato la mia attenzione, perché c’è un risvolto che mi interessa professionalmente. “Il perdono non si conquista con una battaglia, il perdono non si firma con un trattato. Perché le battaglie possono essere vinte oggi, ma venire perse domani e i trattati possono valere il tempo di una firma, che la follia degli uomini cancella in un istante”. Poi più avanti scrive: “forse la condizione dell’uomo moderno risiede nella tragica possibilità di essere vittima, ma anche autore delle barbarie”. E ancora “ma vittima e carnefice devono sapersi ascoltare, per evitare che la colpa crei la vittima e la vittima si trasformi in carnefice”. Posso chiedere inanzittutto se quando ha scritto queste pagine pensava alla tragedia arabo-palestinese-israeliana? Questa è la prima domanda. La seconda domanda è: “non le sembra che in questo duplice ed implicito riconoscimento, cioè l’impossibilità del perdono e la fragilità del trattato, ossia della politica vi sia la spiegazione dell’impossibilità della pace tra arabi e israeliani? Impossibilità come problema ovviamente, perché prima o poi la pace ci sarà in un giorno vicino o lontano non lo passiamo. Oggi noi dobbiamo confrontarci con questo senso della fragilità della politica, della difficoltà o dell’impossibilità del perdono e quindi dell’impossibilità di arrivare ad una composizione di questo tragico conflitto tra palestinesi e israeliani e tra arabi e israeliani.

Khaled Fouad Allam: Si quando ho scritto queste pagine pensavo a ciò che è stato il Novecento nelle relazioni tra israeliani e palestinesi. Era la prima volta che uno scrittore di origine araba andava pubblicamente a dibattere in terra di Israele. Il perdono è fondamentale, perché in un certo senso riesce a costruire dei ponti, mentre i rapporti tra storia e memoria si sono distrutti per entrambe le civiltà ed entrambi i popoli. Ma il perdono non si ottiene così facilmente ed in questo senso credo che noi dobbiamo rinsaldare qualcosa che un po’ ovunque abbiamo perso, anche in occidente. E’ fondamentale per accogliere le sfide che ci aspettano nei rapporti tra cultura e politica. Purtroppo viviamo in un mondo e in un’ epoca in cui la cultura va da un lato e la politica dall’altro in un momento estremamente delicato sul piano internazionale. Ma è anche un momento in cui non bisogna dimenticare che la cosa non è impossibile, perché io ho scritto questo libro, nonostante tutti i rischi, e l’ho fatto anche perché ho la speranza. Quando insegno ai miei studenti faccio sempre una cosa, mostro le fotografie del primo Novecento e chiedo ai miei studenti chi per loro è ebreo, e chi è musulmano. Sfido chiunque a distinguere tra ebrei e musulmani. È impossibile distinguerli perché provengono dalla stessa cultura. Qualcosa nel Novecento si è spezzato e il compito della politica oggi deve essere quello di pensare alla storia come ricostruzione di un legame di fratellanza che abbiamo perso.Grazie

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