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LA STAMPA
03/07/2006


«LO STATO EBRAICO È MINACCIATO NON SOLO DAL CONFLITTO CON GLI ARABI, MA DA UNA SPINTA ISLAMICA RISULTATO DEGLI ERRORI COMMESSI IN IRAQ»
D’Alema: «Non mandiamo le nostre truppe in Libano
se non ci sarà un cessate il fuoco immediato»


Maurizio Molinari

Il ministro degli Esteri Massimo D´Alema
L’Italia non manderà le truppe in Libano se non cessaranno i combattimenti, ora le condizioni per inviare una forza internazionale non sono mature. E’ questo il messaggio che il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, recapita al governo di Gerusalemme, chiedendo un’immediata fine delle operazioni militari, in coincidenza con l’annullamento della riunione al Palazzo di Vetro sulla forza di stabilizzazione.

La cancellazione della riunione sulla forza di stabilizzazione mette in luce le difficoltà all’Onu. Qual è la posizione dell’Italia sulla missione, parteciperà e punta ad ottenerne il comando?
«Eravamo disponibili a partecipare alla riunione: l’Italia è favorevole all’invio delle truppe ma auspichiamo che si creino le condizioni affinché questa iniziativa possa dispiegarsi, con un’immediata cessazione delle ostilità e poi un accordo fra le parti. Queste condizioni appaiono tuttavia lontane e l’annullamento della riunione lo dimostra».

La bozza di risoluzione dei francesi parla di un cessate il fuoco immediato mentre gli Usa puntano delle condizioni che lo rendano duraturo. Qual è la posizione dell’Italia?
«La condizione più importante è che abbiano termine i combattimenti. La posizione israeliana che loro continueranno a combattere fino all’arrivo della forza internazionale è sinceramente inaccettabile perché lo schieramento richiede un accordo fra le parti. E come fa il governo libanese ad accettare un accordo o anche a discutere mentre si trova sotto i bombardamenti? La sostanza è che devono smettere di combattere. Solo quando ciò avverrà vi saranno le condizioni per avviare il processo che porterà allo schieramento della forza. La posizione italiana coincide con il testo del documento approvato a Bruxelles dai ministri degli Esteri europei. Le condizioni di stabilità e la garanzia che non si ritornerà alla situazione precedente con la minaccia Hezbollah ai confini di Israele possono essere ottenute grazie all’invio di una consistente forza internazionale sotto l’egida dell’Onu. Se invece continuerà la guerra questo potrebbe diventare impossibile».

Il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, dice che il cessate il fuoco è questione di giorni...
«Sicuramente lei lo pensa ed io me lo auguro. Ci siamo visti a Gerusalemme in giornate abbastanza drammatiche e prendo atto che il Segretario di Stato sta esercitando una pressione su Israele. Solo gli americani hanno la possibilità di farsi ascoltare veramente. Spero che abbiano la possibilità di arrivare a giorni al cessate il fuoco».

L’approccio degli Usa alla crisi è in tre punti: cessate il fuoco, condizioni di stabilità di lungo termine con il disarmo degli Hezbollah e il ripristino della sovranità libanese su tutto il territorio, schieramento della forza di stabilizzazione. Lei condivide questa impostazione?
«La forza internazionale deve andare a sostenere il governo libanese a fare ciò che non è riuscito a realizzare in questi anni ovvero l’attuazione della risoluzione 1559 dell’Onu, che prevede anche sulla base dell’accordo di Taif tra le forze politiche libanesi il disarmo delle milizie ed il controllo dell’intero Paese da parte delle autorità legittime e delle forze armate. Questo è il processo da realizzare».

Sta chiedendo a Israele di fermare le operazioni?«E’ quello che abbiamo chiesto a Bruxelles assieme a tutta l’Ue. E’ da giorni che lo affermiamo, vi sono evidenti ragioni di carattere umanitario. Si tratta di una guerra nella quale un terzo delle vittime sono bambini ed un’altra parte consistente sono civili».

Non crede che le operazioni militari israeliane possano facilitare la strada alle forze internazionali, indebolendo gli Hezbollah al punto da impedirgli di portare minacce ai contingenti inviati dall’Onu?
«Non lo credo, questa è una logica esclusivamente militare che non tiene conto del fatto che il perdurare del conflitto semina morte, accresce l’odio e la volontà di rivalsa non solo in Libano ma in tutto il mondo islamico. Rischiamo di avere in Libano una situazione irachena, con volontari che arrivano da molti Paesi per combattere contro Israele e contro l’Occidente con rischi enormi per i soldati che dovessero essere impegnati lì a difendere la pace. Il problema è politico, non ha una soluzione militare. E’ difficile per tutti l’idea di trovarsi alla fine esposti ad una guerriglia di tipo iracheno con attacchi suicidi ed attentati. Una forza internazionale che arrivasse in Libano senza essere riuscita neppure a fermare la guerra e con alle spalle una massa di civili uccisi, un clima di odio, sarebbe esposta a rischi di tipo iracheno. Non siamo nel Libano del 1983, la natura del conflitto è cambiata e i rischi sono immensi. Se l’azione di Israele continua e non trova una logica politica ci troviamo in una situazione nella quale nessuno va a cacciarsi in un nuovo Iraq».

Se lei fosse al posto di Ehud Olmert, con il 20% della popolazione nazionale nei rifugi, che cosa farebbe?
«Mi sono ben reso conto del clima che si vive in questi giorni in Israele. Ho incontrato i rappresentanti della comunità italiana, ho incontrato la moglie e i familiari di uno dei militari rapiti da Hezbollah e ho voluto tornare in visita a Yad Vashem proprio per testimoniare in un momento così drammatico che ci sentiamo vicini alle ragioni di una comunità come quella israeliana che si sente minacciata nella sua stessa esistenza. Ma ho detto con chiarezza ai dirigenti israeliani che occorre porre immediatamente fine a una guerra che non risolverà i problemi della sicurezza di Israele. Ho cercato di dire agli israeliani che l’Europa ha messo in campo un’iniziativa che si fa carico della difesa di Israele e dunque gli israeliani devono rendersi conto che affidare sempre e soltanto alla forza militare la propria sicurezza è una strategia non sostenibile nel lungo termine. In realtà appare sempre più chiaro che non c’è sicurezza senza una pace giusta innanzitutto con i palestinesi e insieme con tutti i suoi vicini. L’esperienza dimostra che la pace con l’Egitto e con la Giordania ha comportato per Israele la restituzione dei territori occupati ma ha consentito di normalizzare i rapporti».

Quali sono gli interessi italiani in gioco in Libano?
«Al di là dei rapporti di amicizia e vicinanza culturale e umana, il rischio di una disgregazione del Libano, una delle fragili democrazie del Medio Oriente, paventa rischi di instabilità regionale nel Mediterraneo. Noi abbiamo interesse alla pace nella regione».

Lei ha avuto contatti con gli inviati di Damasco sul Libano e di Teheran sul nucleare. E´ possibile coinvolgere questi due Paesi in una composizione negoziata delle crisi?
«Non credo alla politica degli isolamenti perché porta a radicalizzare le posizioni. Si tratta di Paesi che possono giocare nella regione un ruolo positivo anche se a volte è avvenuto il contrario, cosa che non abbiamo affatto nascosto ai nostri interlocutori. Bisogna aiutare un processo di stabilizzazione che isoli l’estremismo. La mia impressione è che Siria e Iran cercano un riconoscimento del loro ruolo e status. E’ evidente che da parte di Damasco si rivendica il diritto a partecipare ad un processo di pace in Libano che comporti anche la ricerca di soluzioni per il Golan. La Siria teme invece di essere marginalizzata da un nuovo processo che allontani la prospettiva del recupero dei territori occupati da Israele nel 1967. Ciò che abbiamo detto ai siriani è che se avranno un ruolo positivo, se contribuiranno ad isolare l’estremismo, anziché incoraggiarlo, ciò gli consentirà di difendere anche i loro interessi».

Lei ha detto in Parlamento che è difficile affermare con certezza la presenza di Siria ed Iran dietro gli attacchi degli Hezbollah ma Bush e Blair ripetono che proprio Siria ed Iran sono i principali sponsor degli Hezbollah. Su quali basi ha fatto quelle affermazioni in Parlamento?
«Ciò che ho detto in Parlamento, ed è agli atti, è che non abbiamo prove del diretto coinvolgimento di Iran e Siria agli attacchi ma che tuttavia è chiaro il loro sostegno politico agli Hezbollah».

Alla riunione dei ministri della Ue a Bruxelles vi è stata una spaccatura fra partner?
«No. L’Unione Europea ha avuto un’unica voce».

Eppure il suo collega tedesco Steinmeier ha sottolineato che chiedere la fine immediata delle ostilità è altra cosa rispetto al cessate il fuoco che deve essere duraturo...
«La bozza di risoluzione Onu presentata dalla Francia chiede anzitutto la cessazione immediata delle ostilità e poi un cessate il fuoco concordato tra le parti e che sia duraturo. E’ esattamente ciò che ha proposto Steinmeier a Bruxelles; e esattamente ciò che il ministro degli Esteri britannico ha immediatamente condiviso ed è - come potrà verificare nel resoconto stenografico - ciò che io ho sostenuto come posizione del governo italiano davanti alle commissioni di Senato e Camera nella seduta del 27 luglio 2006. Come vede è la posizione condivisa da tutti i maggiori Paesi europei».

Che idea si è fatto di questa crisi libanese: è uno scontro fra Israele e Hezbollah, una guerra per procura fra Israele ed Iran, un altro capitolo del conflitto araboisraeliano o un nuovo fronte della guerra al terrorismo iniziata in risposta agli attacchi dell´11 settembre?
«Israele è minacciato non solo dal conflitto con gli arabi ma da una spinta islamica di carattere più ampio, frutto anche della guerra in Iraq. I leader arabi ci dicono che cresce nelle loro popolazioni il richiamo all’Iran come baluardo della dignità del mondo islamico. Stiamo sottovalutando i rischi che abbiamo di fronte. L’idea che dopo l’Iraq vi sarebbe stato un effetto positivo per la democrazia in Medio Oriente si è rivelata errata rispetto al rischio, sempre più ampio, di un conflitto fra Occidente ed Islam. Basta vedere l’angoscia che c’è nel mondo arabo, abbiamo ricevuto alla vigilia della riunione di Bruxelles una lettera del collega egiziano con una forte richiesta di aiuto. E’ proprio in questo contesto che Israele dovrebbe rendersi conto del rischio che il conflitto araboisraeliano diventi un capitolo del più largo conflitto fra Islam ed Occidente. Israele dovrebbe avere interesse ad un impegno della comunità internazionale in Libano invece, nel nome di una offensiva militare da obiettivi ed esiti incerti, rischia di andare contro i suoi interessi».

Prima a Washington e poi a Roma lei ha avuto due incontri positivi con la Rice. Cosa vi unisce e cosa vi divide nella gestione di questa crisi?
«Condoleezza Rice sta agendo in maniera diversa da quanto fatto dall’amministrazione Bush negli anni passati, con una maggiore attenzione all’Europa e una visione finalmente multilaterale delle relazioni internazionali. Con le iniziative della Rice siamo al tramonto di chi affermava che «dopo Baghdad cadrà anche l’Onu». Il fatto che l’epicentro della crisi oggi sia New York è una straordinaria rivincita del multilateralismo rispetto alle pretese di fare da soli della prima amministrazione Bush. In questa cornice il Segretario di Stato chiede all’Europa di assumersi le sue responsabilità, di non rimanere alla finestra ed io sono d’accordo sul fatto che l’Europa debba essere attiva. Credo che la Rice sia lieta di trovare interlocutori europei che intendono dare una mano, assumendosi dei rischi. Gli americani hanno bisogno di interlocutori che li aiutino a delineare un quadro nuovo e che siano anche disponibili ad assumersi delle responsabilità. Noi siamo disponibili a farlo ma nessuno può pensare che l’Europa paghi e non partecipi alle decisioni. Nel momento in cui diciamo agli israeliani che ci facciamo carico della ricostruzione del Libano, che i nostri contribuenti pagheranno i nuovi ponti, porti, aeroporti e ferrovie ed inviamo anche i nostri soldati per assicurare la sicurezza di Israele, Israele deve ascoltare il nostro consiglio e fermare le operazioni militari».

Uno dei perni della posizione americana è la definizione degli Hezbollah come terroristi. Lei è d’accordo?
«Questo tipo di classificazioni non ci hanno mai fatto compiere passi in avanti. Non c’è il minimo dubbio sul fatto che Hezbollah sia anche un’organizzazione terroristica ma è anche un partito politico, rappresenta una parte significativa della società libanese. Se la realtà è questa semmai bisogna chiedersi come mai un’organizzazione di questo tipo possa aver assunto questo ruolo politico. E’ difficile comprenderlo attraverso decreti e comunicati che assegnano definizioni. I problemi politici vanno affrontati come tali. Bisogna chiedersi perché gruppi come Hezbollah ed Hamas, ovvero forze che predicano la violenza, abbiano raggiunto ruoli così grandi nel mondo arabo ed islamico».

Nei centri studi americani si parla molto di Italia. Gli analisti si chiedono se il governo resisterà oppure se andiamo verso un allargamento della maggioranza. Cosa risponde?
«In questi mesi di intenso lavoro ho cercato di rilanciare il ruolo italiano ed è stata per me l’occasione e l’opportunità per restare lontano dalle polemiche interne, vorrei mantenere questo stile. Il governo comunque ha avviato, certo fra molte difficoltà, un’azione riformatrice e penso ad esempio alle liberalizzazioni che la destra non aveva fatto. L’azione del governo è certo difficile ma cresce il consenso nel Paese e questo è l’allargamento della maggioranza a cui tengo di più anche perché i progetti politici tengono inevitabilmente conto di tal elemento. E’ chiaro che la maggioranza deve saper dimostrare di governare a dispetto delle difficoltà ma, detto questo, ritengo potranno esserci degli aggiustamenti, con un processo di consolidamento che ci aiuti a superare le difficoltà iniziali, ma non vedo all´orizzonte crisi di governo».


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