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Il Papa e l’Islam: quale ruolo per le religioni
di Michele Capasso

Venerdì 22 settembre 2006. Seulewesi, provincia dell’Indonesia. E’ l’una di notte. Fabianus Tibo, Marinus Riwu e Domingus da Silva vengono fucilati con l’accusa di aver contribuito con altri cattolici – durante gli scontri che nel 2000 sconvolsero Poso, al centro dell’isola di Seulewesi- all’uccisione di 200 musulmani. Nonostante loro si proclamassero innocenti, l’esecuzione è stata accelerata e realizzata dopoo le frasi fraintese di Benedetto XVI.
Un Mare, Tre fedi. Con questo titolo, su questo giornale, esattamente 10 anni fa – il 23 settembre 1996 – allertavamo sul pericolo di una degenerazione nei rapporti tra le tre grandi religioni monoteiste presenti nel Mediterraneo.
Successivamente, in occasione del II Forum Civile Euromed svoltosi a Napoli nel dicembre 1997, dedicammo una sessione dallo stesso titolo coordinata dall’ebreo Shmuel Hadas, dal cattolico Michael Fitzgerald e dal musulmano Khaled Fouad Allam. In quella occasione oltre 2400 partecipanti affermarono la urgente necessità di giungere ad una pacifica coesistenza delle tre grandi religioni monoteistiche attraverso la condivisione dei principi comuni alle identità dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam che investono non solo la loro formulazione religiosa ma, soprattutto, il loro svolgimento storico che si coglie nel tempo e nello spazio nel corso delle umane vicende.
Allora i rappresentanti delle tre religioni concordarono pienamente sulla possibilità di creare una “grande coalizione di valori condivisi” da parte delle rispettive fedi di appartenenza, attuabile non solo attraverso l’analisi delle parti comuni e condivisibili dei testi sacri, ma specialmente attraverso un’osservazione “in opera” nella vita dei popoli e delle persone, come si presentano nel diritto, nell’economia, nella letteratura, nell’arte, nelle tradizioni, ecc. E non vi è dubbio alcuno che, specialmente nel Mediterraneo, gli intrecci e le comunanze tra popoli di fedi diverse costituisca la ricchezza di quest’area.
Lo studio dei principi caratterizzanti le tre religioni monoteistiche del Mediterraneo, tanto nella loro originaria formulazione quanto nella valenza che essi assumono nel corso del tempo e dei vari ambiti, permette di individuare le essenziali chiavi di lettura delle principali identità religiose e culturali dei popoli dell’area mediterranea. Tali chiavi di accesso, se studiate comparativamente, possono aiutare a comprendere ciò che accomuna e ciò che differenzia emisferi culturali e religiosi dell’area mediterranea. Attraverso questo esercizio è possibile identificare le parti comuni alle tre religioni costituendo in questo modo la base fondante della “grande coalizione”: a condizione, però, di riconoscere che per molte persone e tanti popoli la religione ha segnato la cultura e quindi fa parte integrante dell’identità, che va rispettata qualunque essa sia.
Il superamento di stereotipi e pregiudizi vale nei riguardi della religione ma anche rispetto alle barriere create da particolarismi, storie, origini e culture differenti. Il dialogo, sia esso interreligioso, interetnico o interculturale, deve permettere di andare al di là della semplice tolleranza: deve includere uno spirito di accoglienza, di ascolto e di apertura verso l’altro. Lo scopo è quello di cercare di prevenire le tensioni reciproche e le dispute tra le religioni.
Gli ostacoli sul sentiero del dialogo sono numerosi e complessi, dato che esiste una forte resistenza nei gruppi conservatori di tutte le religioni e una profonda sfiducia e preoccupazione all’idea di eventuali influenze “estranee”.
L’esperienza svolta in questi ultimi dodici anni con la Fondazione Mediterraneo ha dimostrato che il dialogo può portare ad un cambiamento nella mentalità dell’individuo, ma non nel suo credo. Non è il contenuto della fede che deve cambiare, ma la mentalità delle persone verso altre religioni ed idee. La gente è la stessa in tutte le religioni e lo scopo fondamentale, che perseguiamo con tenacia, è quello di unirla.
Nonostante quello che accade in questi giorni – ultima la reazione citata al discorso del Papa a Ratisbona – la cooperazione tra i membri delle diverse religioni nella ricerca della pace nel mondo è ancora possibile. Il dialogo interreligioso, inteso non come fine ma come mezzo per trovare ulteriori motivazioni che portino alla convivenza e alla cooperazione, è oggi cruciale per l’area del Grande Mediterraneo. Se il nostro fine è un mondo in cui regni la convivenza pacifica, se pensiamo che nessuna guerra o azione possano essere caldeggiate in nome della religione, allora il dialogo interreligioso è indispensabile: un dialogo che significa comunicazione tra simili, che vuol dire non solo “parlare” ma, soprattutto, “ascoltare “ il prossimo con rispetto e con attenzione imparando a capirlo e cercando di farsi capire. Con parole semplici.
Ho pensato a tutto questo dopo la notizia dell’esecuzione in Indonesia ed ho riletto ancora una volta il testo della conferenza con cui il Papa, in Germania lo scorso 12 settembre, ha irritato gran parte del mondo musulmano. E mi sono chiesto come mai le giustificazioni del Papa, in occasione dell’Angelus domenicale del 17 settembre, non abbiano calmato gli animi. Dopo la vicenda delle caricature danesi, la citazione delle parole di un imperatore bizantino del XIV secolo che associa l’Islam alla violenza ha gettato benzina sul fuoco in un momento inopportuno. Molti considerano il Cardinale Ratzinger come un teologo notoriamente conservatore. A partire dalla Sua elezione, gli osservatori attenti hanno fiutato i possibili futuri contrasti: in primo luogo con i teologi della liberazione o i teologi aperti al pluralismo religioso (alcuni sono stati infatti rimproverati severamente), in seguito, con le altre chiese – in primo luogo quelle ortodosse – e le comunità ecclesiastiche, specialmente i protestanti, e infine con i promotori del dialogo interreligioso, sospettati di promuovere la “dittatura del relativismo religioso”.
Poco importa sapere se la citazione tratta dalla controversia tra l’Imperatore Manuel II Paleologo ed un erudito musulmano corrisponda al Suo pensiero oppure no: la scelta della citazione non è fortuita. In ciò si può affermare che il Cardinale Ratzinger ha reso un cattivo servizio a Papa Benedetto XVI. Più di chiunque altro, il Papa dovrebbe sapere che, da quando si è insediato sul trono di San Pietro, ogni parola pronunciata è spiata, sezionata e commentata. E, quando si tratta di altre religioni monoteiste (specialmente l’Islam), la prudenza è d’obbligo. Questa è la regola imposta a partire dal Concilio Vaticano II a tutti i papi e che ha loro assegnato la stima dei musulmani.
Tutti noi abbiamo visto tanti musulmani piangere la morte di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. Quest’ultimo, in particolare, in occasione delle sue visite in Siria ed in Marocco, era stato acclamato ed accolto calorosamente dalle popolazioni musulmane.
Se l’intenzione di Papa Benedetto XVI all’Università di Regensburg era quella di sottolineare il rapporto tra fede e ragione, tra religione e violenza, perché citare la settima controversia tra l’Imperatore Manuel II e l’erudito persiano, nel corso della quale l’imperatore se la prende con l’Islam e la sua relazione con la violenza, da lui considerata come sostanziale a questa religione? Il Papa ha perso di vista il fatto che all’epoca si era al crepuscolo del XIV secolo, nel momento stesso in cui l’Impero Bizantino vacilla sotto gli assalti ripetuti dei Selgiuchidi turchi in Asia Minore e che culminerà, nel 1453, nella presa di Costantinopoli e nella fine della dinastia del Paleologi bizantini con l’instaurazione di un grande impero musulmano ?
La storia stessa del Cristianesimo è una fonte inesauribile di “citazioni possibili” che confermano il rapporto tra religione e violenza : le Crociate, l’Inquisizione, la Conquista delle Americhe, e più vicino a noi, la colonizzazione occidentale della regione musulmana, ed infine questa terribile violenza nata nel cuore della modernità occidentale e dell’Europa cristiana: il nazismo ed i suoi crimini indicibili. Di gran parte di queste “colpe antiche” del Cristianesimo papa Giovanni Paolo II si era apertamente scusato.
Non voglio credere che il Cardinale Ratzinger, con la Sua conoscenza della Storia della Chiesa e del Mediterraneo, ignori il rapporto dell’Islam con la ragione (suggerisco agli interessati l’opera di Malek Chebel: L’Islam et la raison - ed Tempus, 2006).
In effetti, tra il 622 ed il 1492, l’Islam aveva brillato di mille luci, investendo in tutti gli ambiti scientifici ed è stato un ponte di trasmissione del sapere greco; i musulmani furono, allora, “produttori di civiltà”: per la padronanza delle scienze, per il loro gusto per la discussione filosofica e le dispute teologiche, per la loro inclinazione per le arti e la musica.
Di certo il Papa prende le distanze rispetto a coloro che cita, affermando che « l’Imperatore si rivolge al suo interlocutore in un modo sorprendentemente rude per Noi (sottolineando Noi), rivolgendogli la domanda centrale del rapporto tra religione e violenza ed ha confermato, in occasione dell’Angelus domenicale, di non far Sua l’affermazione di Manuel II.
Secondo molti osservatori, il Papa ha commesso un errore di opportunità. Se avesse desiderato sottolineare rapporti più armoniosi tra Islam e Cristianesimo, avrebbe potuto trovare in Francesco d’Assisi, Raymond Lull o l’Imperatore Federico II un’ottima materia per riaffermare l’intesa tra le grandi religioni.
Anche riguardo alle violenze che subisce il mondo musulmano oggi - le violenze strutturali del sottosviluppo, della repressione e della marginalizzazione, ma anche le violenze subite in Palestina, Iraq e Libano a prescindere dalle responsabilità - la locuzione papale, ancorché di alto livello culturale, risulta impropria.
Benedetto XVI è apparso allarmato dall’esclusione della fede dalle società occidentali contemporanee e ha cercato, per questo, di infondere un nuovo spirito: questo è un suo diritto sacrosanto in quanto capo della Chiesa. Ma ciò non deve avvenire a discapito del dialogo tra popoli, culture e religioni. Non si può rimproverare all’Islam di essere in marcia. E, soprattutto, non si ha il diritto di confondere l’Islam-Testo con l’Islam-Contesto o con l’Islam-Pretesto.
Non più del Cristianesimo, l’Islam non è un blocco monolitico e nessuno può affermare, a meno di soffrire d’amnesia storica, che vi sono delle religioni di pace e delle religioni di spada. Bisogna leggere il libro di Amin Maaluf su “Le crociate viste dagli Arabi” per convincersene. D’altronde, esattamente un secolo dopo il discorso di Manuel II sulla violenza dell’Islam, cioè nel 1492, il Sultano Benyazit inviava la sua flotta in Spagna al fine di trasportare centinaia di migliaia di “rifugiati ebrei” cacciati da Isabella la Cattolica. Quindi, in materia di tolleranza, nessuno può dare lezioni.
Nei giorni scorsi a Salerno, il Cardinale di Cracovia Stanislao Dziwis – segretario ed uomo ombra di Giovanni Paolo II – ha confermato la coerenza delle parole del Papa ed ha affermato che “Il Dio unico delle tre religioni unisce e non divide”.
Conoscersi per condividere: questa è la finalità principale che ci siamo prefissati dieci anni fa e che, ancora e soprattutto oggi, costituisce la via maestra da seguire. Per calmare gli animi. Per consolidare il dialogo. Per aiutare il “Dio unico” ad unire tutti i fedeli delle tre religioni costituendo, finalmente, un Mare Nostrum diviso “tra” noi e non “da” noi.



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