IL MATTINO
20/09/2005
Un catalogo
della contemporaneità
Vincenzo Trione
Parigi, inizi del Novecento. Apollinaire descrive i Salons come immense fiere,
frequentate da visitatori di ogni parte del mondo. Ci si reca agli Indépendants
«come si andava una volta a Beaucaire o a Novogorod». È trascorso un secolo. Ma
la situazione non è cambiata. Anzi, si è dilatata. I Salons si sono
moltiplicati e diffusi. Da qualche anno, stiamo assistendo a uno strano
fenomeno. Una sorta di epidemia. In ogni continente si aprono manifestazioni
d’arte con cadenza periodica. Biennali, triennali. Ovunque, in importanti
capitali e in città periferiche. Un virus benefico, che riflette un preciso
atteggiamento. Un modo per sottrarsi a ogni metodo. Non si vogliono individuare
linee di ricerca prevalenti; non ci si sforza di scorgere traiettorie
stilistiche prevalenti. Ci si propone solo di offrire un catalogo del presente.
Specchio fedele di questo atteggiamento è la Biennale dei giovani artisti
dell’Europa e del Mediterraneo, curata da Achille Bonito Oliva e da Eduardo
Cicelyn, che si è inaugurata ieri sera a Castel Sant’Elmo. Un percorso che si
snoda in due momenti: negli ambulacri e sulla piazza d’armi. Una carrellata di
contaminazioni e di convergenze. Un’occasione stimolante, da diversi punti di
vista. Per scoprire contesti spesso inediti. Per imbattersi nei lavori di
giovani artisti (under 30), spesso esclusi dai circuiti ufficiali, attivi in
realtà geografiche lontane, dense di forza e di tensione espressiva.
Settecentocinquanta operatori di ventotto nazioni. Provenienti non solo dai
paesi occidentali, ma anche da nazioni come l’Algeria, la Finlandia, la Siria,
Israele, Palestina. Sezioni tematiche dedicate a vari linguaggi (arti visive,
fotografia, installazioni, videoarte, architettura, grafica, design, web,
multimedia, illustrazione, moda, fumetto, graffiti), tra intersezioni e
accostamenti. Nonostante questa «impaginazione», si è travolti da un caos. Uno
straripare di voci, di gesti. Inutile provare a scorgere la logica del percorso
espositivo. O porsi domande sul senso e sulla coerenza di quello che si
incontra. Bisogna abbandonarsi a uno sfrenato gusto ludico. Girare, smarrirsi.
Siete nella casbah della creatività. Ci si guarda intorno, si sosta dinanzi a
qualche «oggetto», si indugia di fronte a scene. Come in un mercato arabo, si
«cade» in una pioggia di sapori, di umori. Su un ideale schermo, si aprono link
continui. Ognuno è diverso dall’altro. Una manifestazione che riesce a
trasformare i suoi limiti in forza. Imperfezione, disomogeneità e
frammentazione sono le qualità di questa Biennale rapsodica, che nega ogni
metodo critico, per offrire un vasto catalogo della contemporaneità. Tensioni
diverse insieme. Voglia di rischiare e prudenze. Sperimentazione e stanchezza
immaginativa. Desiderio di imboccare sentieri inediti e incapacità di
allontanarsi dal «già fatto». Avanguardia e caricatura dell’avanguardia stessa.
C’è di tutto. Bacheche, vasche, lavatrici, mostri, abiti, disegni. Tanti video,
tante fotografie. Tra i lavori più efficaci, quelli di Afterour, di Mercurio,
di Del Vecchio, di Batinic, di Lopez Lopez, di Mayonal. Traiettorie
contrastanti si accostano. Le differenze coesistono; si esaltano a vicenda. Un
diluvio divertente, in cui si possono individuare alcune costanti.
Innanzitutto, la frequente scelta di molti artisti, che hanno deciso di
mettersi insieme, di «fare situazione». Non per dar vita a gruppi, ma per
ritrovarsi in «nomi collettivi», autori, tra l’altro, di alcuni tra i migliori
contributi in mostra. Colpisce, inoltre, la volontà di portarsi al di là dei
confini dei linguaggi tradizionali, per individuare dialoghi tra segni e icone.
Davvero rari gli «episodi» di pittura e di scultura. Si prediligono gli
sconfinamenti tra i codici, l’interdisciplinarietà, il meticciato, «dove - come
scrive Bonito Oliva - tutti i linguaggi concorrono a delineare forme espressive
legate al nostro tempo». Stili lontani che si sovrappongono, per violare la
prigione del minimalismo e del concettualismo. Per riscoprire la sapienza di racconti
aderenti alle voci del mondo, legati alle emergenze della soggettività.
Sfogliamo diari privati, con pagine abitate da figure ironiche e drammatiche,
grottesche e tragiche. Ci viene chiesto solo di divertirci, di vagabondare, di
perderci in questo Salon.