24 settembre 2005
LA BIENNALE DEI GIOVANI
DELL’EUROPA E DEL MEDITERRANEO
«Se voir dans
l’autre», vedersi nell’altro. Il work in progress dell’artista marocchina Shimi
Batoul, trentunenne dallo sguardo color foglia, sembra rispecchiare
icasticamente lo spirito che anima la XII Biennale dei giovani artisti
dell’Europa e del Mediterraneo in corso a Napoli: una babele di linguaggi e
suoni, un cous-cous di codici espressivi e persino di odori diversi, evocati
dai materiali usati per opere che utilizzano lo zafferano, la paprika, l’henné,
le spezie e i pigmenti della tradizione mediterranea accanto al nero di seppia
(vero). «La mia arte gioca molto sulla percezione olfattiva», spiega Shimi che
da giorni ritrae in foto digitali esponenti dei 28 Paesi ospiti a Castel
Sant’Elmo con uno specchietto in mano che riflette così nell’immagine anche il
bel viso rotondo dell’artista, proprio come i mandala di altri suoi lavori che
lei ti mostra in foto. Zahra - in arabo, «fiore» - ha invece un sogno:
«Diventare un’artista internazionale che mostri al mondo che cosa è l’arte
libica», dice con dolcezza lasciando per un attimo i pennelli sottili con cui
sta dando vita, su un cartoncino A4, a sagome minute di animali che si
rincorrono su uno sfondo policromo. Altre sue opere, di dimensioni più grandi,
sono esposte sulla parete della fortezza dedicata alla delegazione dei sette
artisti libici, per la prima volta insieme a Napoli per la Biennale. Zhara, 34 anni,
unica donna della delegazione avvolta dal suo hijab verde chiaro, è molto nota
e non solo in patria: focomelica, dipinge con incredibile abilità con la bocca
e ti racconta la sua esperienza creativa iniziata a sei anni, disegnando con i
piedi, prima di alcuni interventi chirurgici in Inghilterra che accanto alle
cure mediche l’hanno affinata grazie alla signora inglese che l’ospitava nella
tecnica pittorica, ispirata ai graffiti preistorici sulle montagne nei pressi
del deserto libico. «Ma con una novità, il colore», sottolinea lei riprendendo
a dipingere sotto lo sguardo amorevole del fratello e della nipote. C’è anche
il suo professore di università, Mohamed Abumeis, 35 anni, artista versatile
formatosi in Inghilterra e sperimentatore di stili diversi che alla Biennale
espone 4 grandi tele dominate dai colori della sua terra, impasti tra olio ed
henné: «Cerco di fissare sulla tela i simboli della nostra identità culturale»,
dice. Il grido di gioia delle donne berbere (antitesi dell’«Urlo» di Munch), le
distese di palmizi, gli oggetti della superstizione tanto simili ai nostri
(antimalocchio come il corno, pesce, il cavalluccio marino, la mano aperta) e
poi Gdamas, la città-gioiello dei Tuareg nel deserto. E sono proprio i Tuareg
ad aver sedotto anche Emad, 32 anni, pittore per formazione, assistente di volo
part-time per professione e gallerista che a Sant’Elmo espone coloratissime
foto stampate su tela di dettagli delle selle dei cammelli su cui viaggiano gli
uomini blu: «Ho trascorso due settimane con loro nel deserto, scattando circa
300 foto. Insolite anche per la nostra cultura».